In Te Speriamo – Uniti a lui è un’altra storia

Nel mese di giugno, dopo il compimento del tempo pasquale con la solennità di Pentecoste, la liturgia riprende il cosiddetto “tempo ordinario”. Un’espressione che, non di rado, rischia di essere intesa in senso riduttivo, quasi come se si trattasse di un tempo “minore”, meno significativo rispetto ai cosiddetti “tempi forti” dell’anno liturgico. Eppure, a ben guardare, il tempo ordinario è tutt’altro che debole. È il tempo più lungo dell’anno, quello in cui la vita si svolge nel suo ritmo quotidiano, fatto di relazioni semplici e gesti feriali. Ed è proprio in questa quotidianità che siamo chiamati a spendere la grazia ricevuta nei misteri celebrati: l’Incarnazione, la Passione, la Risurrezione. È nell’ordinarietà, infatti, che la grazia si fa carne nella nostra carne, passo nei nostri passi, speranza viva nella concretezza delle nostre giornate. Questa grazia è il Vangelo stesso, che desidera prendere forma nella nostra esistenza: nelle scelte che compiamo, nelle relazioni che viviamo, nella cura del tempo e delle persone che ci sono affidate.
Solo quando questa Parola diventa vita – concreta, incarnata – la nostra esistenza si compie in pienezza. E diventa allora sorgente di speranza, non quella effimera o ingenua, ma quella vera, capace di abitare la complessità, sostenere le fatiche e generare fiducia anche in chi ci vive accanto. Questa speranza, che nasce dal rimanere uniti a Cristo, ha accompagnato da sempre il cammino del popolo di Dio. È il grido fiducioso che attraversa tutta la Scrittura, il filo che unisce le attese dei patriarchi, i salmi dei poveri, il silenzio dei profeti, il sì dei discepoli. È il cuore stesso della fede cristiana: «In te speriamo».
Oggi questo ritornello si consegna a noi. Siamo chiamati a incarnarlo, a trasformarlo in vita, per diventare segni concreti e credibili di speranza nel nostro tempo.
Per interiorizzare questo impegno, entriamo ora nel Cenacolo, là dove tutto ha avuto inizio. Riascoltiamo la voce del Maestro che, con tenerezza e decisione, affida ai suoi amici la consegna più profonda: «Rimanete in me». Solo così la vita porta frutto. Solo così la speranza non delude.
1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
I discepoli osservano Gesù con apprensione. Lo vedono compiere gesti che non riescono a comprendere fino in fondo: perché, accogliendoli, si china davanti a loro per lavare i piedi? Perché spezza il pane e versa il vino dicendo: “Questo è il mio corpo”, “Questo è il mio sangue”? Perché li mette di fronte al fatto che uno di loro lo tradirà? E quali saranno le conseguenze di quei gesti e di quel tradimento?
Domande che caricano la Cena di tensione. Essa è gravida di eventi già annunciati lungo il cammino verso Gerusalemme, ma che ora appaiono difficili da accettare, da vivere fino in fondo.
Mentre i discepoli si interrogano, Gesù prende la parola. Il suo è un lungo discorso, che suona come un commiato, come un testamento spirituale. I temi si susseguono con intensità, come un fiume in piena: Gesù sente l’urgenza di trasmettere ciò che potrà aiutarli a continuare il cammino, a portare avanti la missione di annunciare, a ogni uomo e a ogni donna, fino agli estremi confini della terra, il Vangelo della Misericordia, l’avvento del Regno di Dio.
Li rassicura: non saranno soli. Non li lascerà orfani. Sarà ancora con loro, presente nello Spirito. Li invita a restare uniti a Lui e tra di loro, perché solo così la missione potrà compiersi.
Per farsi capire meglio, come spesso fa, usa un’immagine. Vuole che colgano qualcosa di più profondo su di Lui, su loro stessi e sul legame che li unisce. È l’immagine della vite e dei tralci, già presente nei testi profetici. Serve a far comprendere una verità decisiva: la loro vita e la loro missione – così come quella di tutti i discepoli, anche in futuro – dipendono da una sola condizione: “rimanere” uniti a Cristo.
“Rimanere” è il verbo che domina gli undici versetti del discorso di Gesù che stiamo meditando. Vi ricorre undici volte, come se l’evangelista volesse sottolineare, con questa insistenza, che senza unità, senza unione fraterna, senza comunione, senza pace, non potrà mai esserci fecondità, né crescita, né futuro. In una parola: non c’è speranza.
Il “rimanere” di cui parla Gesù, prima ancora di essere inteso come tratto distintivo della vita e della missione dei discepoli, va riconosciuto come elemento peculiare del suo stesso stile. Le sue relazioni sono infatti segnate dalla fedeltà, dalla permanenza.
Pensiamo al Risorto sulla strada di Emmaus, che abbiamo contemplato nel ritiro del mese scorso: sembra – scrive l’evangelista Luca – voler proseguire oltre, ma in realtà attende che i discepoli lo invitino con le parole: «Resta con noi». Il Risorto non si fa pregare, e subito la sua risposta viene descritta con sobria efficacia: «Egli entrò per rimanere con loro» (Lc 24, 29). Una parola che dovrebbe aprirci gli occhi, come accadde ai due discepoli, per farci comprendere che Gesù non vuole essere un passante nella nostra vita, ma un compagno fedele, che rimane e permane realmente – anche quando i nostri occhi non riescono più a percepirne la presenza fisica – nella Parola e nell’Eucaristia, segni sacramentali della sua presenza.
Nel contesto dell’Ultima Cena, Gesù è esplicito: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto» (Gv 15, 7). Qui il “rimanere” si apre a due direzioni:
• La prima riguarda il nutrimento della Parola: se i tralci rimangono uniti alla vite, la linfa vitale – che è il Vangelo – può fluire e sostenere la vita. La Parola è cibo, è luce, è respiro. Senza di essa non possiamo vivere né camminare.
• La seconda riguarda la preghiera: rimanere uniti a Cristo trasforma anche ciò che chiediamo. La Parola che ci nutre diventa criterio del nostro desiderare. Allora, ciò che domandiamo non nasce più dall’egoismo, ma è frutto di una volontà che si conforma a quella del Signore. In questo senso, la speranza non è un’attesa passiva, ma una domanda audace, fondata sull’amore ricevuto.
Rimanere in Cristo, dunque, significa vivere di Lui, lasciarsi trasformare da Lui, fino a diventare noi stessi Vangeli viventi, persone la cui esistenza trasfigurata comincia a portare frutto.
«Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».
Uno dei frutti più belli del rimanere in Cristo è la gioia. Non una gioia facile o superficiale, ma quella che Gesù paragona al travaglio del parto: un dolore che genera vita. È una gioia che abbraccia tutta la realtà, anche quella segnata dalla fatica e dalla ferita. È la gioia di chi vive con speranza, perché sa che la presenza del Signore rimane anche nelle notti dell’anima.
Sperare, in questo senso, non significa illudersi che tutto andrà come desideriamo, ma credere che, qualunque cosa accada, Cristo rimane. E questo ci basta.
I discepoli non dovrebbero mai dimenticarlo: la vera gioia, la gioia cristiana, è il frutto del rimanere uniti a Cristo. Ce lo ha ricordato, in questi anni, il magistero della gioia consegnato alla Chiesa da Papa Francesco. All’inizio dell’esortazione Evangelii gaudium, viene detto con chiarezza: vive nella gioia chi ha incontrato Cristo nella propria vita e si è lasciato raggiungere da Lui (cfr nn. 1-2).
Un messaggio che può sembrare difficile da accogliere, persino stridente, in un mondo che lascia sempre meno spazio alla gioia. Mentre scrivo, le notizie dell’attacco di Israele all’Iran rimbalzano da un’emittente televisiva all’altra. Questo ennesimo teatro di guerra si aggiunge al dolore di migliaia di persone che, nella Striscia di Gaza, muoiono sotto le bombe e per la fame, e alle tante vittime del conflitto che da più di tre anni insanguina l’Ucraina. Come si può gioire di fronte a tanta tristezza, distruzione, desolazione? Eppure, proprio in questa situazione, siamo chiamati a non cedere alla disperazione, ma a sentire che ci è chiesto di vivere, seminare e annunciare il Vangelo della speranza.
Come fare? Il Vangelo della vite e dei tralci ci offre una risposta chiara: di fronte a chi sceglie la logica del tradimento, del rinnegamento, del ripiegamento su sé stessi, Gesù continua a dire, a chiunque voglia accogliere la sua Parola e restare unito a Lui: «Vi chiamo amici» (Gv 15, 15). Noi siamo suoi amici, chiamati a seminare nel mondo amicizia, amore, solidarietà, accoglienza, comprensione, perdono. In una parola: Fraterno Aiuto Cristiano!
Questa è la nostra missione di discepoli e discepole di Gesù: credere e sperare che l’umanità possa conoscere un futuro secondo il progetto di Dio. Siamo chiamati a raccogliere e rinnovare l’invito di don Paolo Arnaboldi, e a vivere nel nostro quotidiano – a partire da chi ci sta accanto – come seminatori di speranza. A costruire, lì dove siamo, una famiglia umana, in cui si vive uniti, come veri fratelli e sorelle.
Uniti nella gioia che nasce dal rimanere in Cristo e tra di noi.
Uniti affinché il mondo creda (cfr Gv 17, 21).
Perché il mondo comprenda che «in Te speriamo», e che Cristo è la nostra Speranza.

INCONTRIAMO GESÙ VIVO
• Invoco lo Spirito Santo. Nel silenzio mi introduco nel Cenacolo. Mi immergo nell’atmosfera della Cena che Gesù sta condividendo con i suoi amici. Vedo i loro volti perplessi, colmi di interrogativi di fronte a ciò che sta accadendo. Mi immedesimo nei loro sentimenti, perché anch’io, come loro, spesso non comprendo fino in fondo ciò che Gesù sta facendo e dicendo. Ho bisogno di essere raggiunto dallo Spirito, illuminato dalla Parola, per coglierne il senso. Ho bisogno di una luce che mi sottragga al rischio di sentirmi avvolto, coinvolto, persino schiacciato dalla tristezza per ciò che non va nella mia vita, nel cammino condiviso, nella storia del nostro tempo.
• Ascolto Gesù che invita i discepoli, con insistenza, a rimanere uniti a Lui come i tralci alla vite. Mi riprometto di meditare questa immagine che mi aiuta a comprendere il legame vitale che mi unisce a Cristo. Solo rimanendo unito a Lui, solo assumendo come mio il suo stile nelle relazioni – uno stile fatto di accoglienza, condivisione, comunione – posso generare vita. Solo così posso contribuire a costruire un autentico clima di famiglia, come quello vissuto nel silenzio e nel nascondimento di Nazareth, riflesso luminoso dell’amore trinitario. Solo così posso essere segno di speranza per il mondo.
• Gesù mi chiama amico/amica. Anche se, spesso, non sono stato all’altezza della sua amicizia. Eppure, mi chiama amico/amica, perché desidera affidarmi la sua missione: seminare nel mondo l’unica realtà capace di dare speranza all’umanità a cui appartengo, a cui apparteniamo tutti: il suo Amore. Il mondo ha bisogno d’amore. Un mondo ferito dall’egoismo, assetato di potere, segnato da un’economia che uccide, che genera disuguaglianze e oppressione, ha bisogno di missionari e missionarie dell’Amore, testimoni di fraterno aiuto cristiano.

Signore, aiutaci a rimanere
uniti a Te,
a vivere in comunione con Te
e tra di noi,
perché il mondo possa sperare in un futuro migliore,
in una vita vissuta in pienezza.
Così sia.

Don Giuseppe Tilocca